Il dolore mentale – psychache
La suicidologia é la disciplina dedicata allo studio scientifico del suicidio e alla sua prevenzione (essa si riferisce anche a tutte le manifestazioni correlate al fenomeno suicidario). Il termine (e il concetto) fu introdotto da Edwin Sheneidman (1964) e da allora è stato usato in diversi contesti, come ad esempio per descrivere aspetti di un training specifico (Fellowship in Suicidology, 1967); La suicidologia dunque, diversamente da altre scienze, quali ad esempio quelle del comportamentismo, non include meramente lo studio del suicidio ma enfatizza la prevenzione dell’atto letale; in altre parole incorpora interventi appropriati per prevenire il suicidio, una caratteristica non sempre riconoscibile ed esplicitata nei notevoli contributi sul tema.
Nel corso di una vita trascorsa a studiare il suicidio, Shneidman ha concluso che l‘ingrediente base del suicidio è il dolore mentale insopportabile , che chiama psychache (Shneidman 1993a), che significa “tormento nella psiche”. Shneidman suggerisce che le domande chiave possono essere rivolte ad una persona che vuol commettere il suicidio sono “Dove senti dolore?” e “Come posso aiutarti?”. Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un dolore mentale insopportabile, allora il compito principale di colui che é deputato ad aiutare l’individuo é alleviare questo stato con ogni mezzo a disposizione. (Shneidman 2004; 2005). Se infatti si ha successo in questo compito, quell’individuo che voleva morire sceglierá di vivere. Shneidman (1993a) inoltre considera che le fonti principali di dolore psicologico ovvero vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, ecc. hanno origine dai bisogni psicologici frustrati e negati. Nell’individuo suicida è la frustrazione di questi bisogni e il dolore che ne deriva ad essere considerata una condizione insopportabile per la quale il suicidio è visto come il rimedio più adeguato. Ci sono bisogni psicologici con i quali l’individuo vive e che definiscono la sua personalitá e bisogni psicologici che quando sono frustrati inducono l’individuo a scegliere di morire. Potremmo dire che si tratta della frustrazione di bisogni vitali; questi bisogni psicologici includono il bisogno di raggiungere qualche obiettivo come affiliarsi ad un amico o ad un gruppo di persone, ottenere autonomia, opporsi a qualcosa, imporsi su qualcuno e il bisogno di essere accettati, compresi e ricevere conforto. Shneidman (1985) ha proposto la seguente definizione del suicidio: “Attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione.
La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in una stato chiamato genericamente stato perturbato, nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. Il termine psychache tenta infatti di esprimere il dramma della mente del soggetto suicida (Pompili, 2009) . Shneidman (1996) ha inoltre suggerito che il suicidio è meglio comprensibile se considerato non come un movimento verso la morte ma come un movimento di allontanamento da qualcosa che è sempre lo stesso: emozioni intollerabili, dolore insopportabile o angoscia inaccettabile, in breve psychache. Se dunque si riesce a ridurre, ad intaccare e a rendere più accettabile il dolore psicologico quell’individuo sceglierà di vivere.
Nella concettualizzazione di Shneidman (1996) il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni per risolvere un certo problema che causa sofferenza estrema. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; ma alla fine, fallite tutte le altre possibilitá, la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.
L’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle soluzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente pochi per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile (Pompili, 2008b). Quindi, in questi termini, il suicidio si configura come la soluzione perfetta per le angosce insopportabili della vita.
Secondo Shneidman (1996) ci sono degli elementi che sono presenti in almeno il 95% dei soggetti suicidi; egli li chiama Commonalities of Suicide:
Il suicidio ha portato via milioni di vite nel corso dei secoli e la sua comprensione rimane ancora parziale. Abbiamo però oggi un bagaglio di conoscenze che ci permettono di approcciarci ad una prevenzione concreta. La corretta gestione del soggetto in crisi da parte dei curanti pone le basi per un’effettiva prevenzione.
Sebbene esista una chiara associazione tra disturbo psichatrico e suicidio è vero anche il contrario. Molti soggetti non sono depressi in senso stretto; sono tristi, angosciati per un problema che ai loro occhi non ha soluzione. Etichettarli precocemente come affetti da depressione li destina ad un percorso nel quale il rischio di suicidio è solo marginalmente affrontato. Il suicidio non dovrebbe mai essere considerato un sintomo di un certo disturbo psichiatrico, piuttosto una dimensione frequentemente associata alle problematiche psichiatriche.
Spesso l’enfasi non è tanto sulle emozioni negative degli individui suicidari e sulla possibilitá di ascoltare il loro dolore e dunque aiutarli. Si preferisce invece gestire un certo disturbo per il quale i protocolli indicano una precisa terapia, sicuri di agire anche contro il suicidio. Una visione fenomenologica del suicidio è invece auspicabile per meglio comprendere la vergogna, la colpa, l’abbandono, la disforia e il sentimento di disperazione (hopelessness).
Probabilmente, eseguendo un’indagine ad hoc sul suicidio e sottolineando il ruolo delle emozioni negative si puó fare di piú. Dovremmo essere empatici e “risuonare” con il dolore mentale del paziente considerando “l’unicitá” della sua sofferenza. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto per cambiare anche i poco il dolore da ‘intollerabile’ e ‘insopportabile’ a ‘quasi sopportabile’ e ‘tutto sommato sopportabile’; nel far questo l’enfasi dovrebbe essere sui bisogni psicologici frustrati dai quali origina la sofferenza del soggetto a rischio.
Bibliografia
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![]() Prof. Maurizio Pompili Professore Ordinario di Psichiatria Responsabile del Servizio per la Prevenzione del Suicidio Per Emergenze chiamare il NUMERO UNICO NAZIONALE: 112
Il Prof. Maurizio Pompili, Ordinario di Psichiatria, Sapienza Università di Roma, ricevuto dal Sig. Comandante dell'Arma dei Carabinieri Generale di Corpo d'Armata Teo LUZI, in occasione dell'accordo con l'Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant'Andrea per un centro di ascolto telefonico per varie finialità, anche per la prevenzione del suicidio |
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